UNA STRADA LUNGA UN SECOLO
È un racconto. È il respiro di una memoria, la sua, di
Francesco De Gregori, in un disco già in circolazione, Sulla strada, nove
canzoni che fluiscono suggestive e irrompono a passo marziale. «È il Novecento,
ci sono piantato dentro, sono nato a metà del secolo (nel ‘51)». Una narrazione
che usa molti materiali espressivi per un tempo che «ci ha portato la guerra
dentro casa e ci ha coccolato con l’arte, la musica, le comodità, il progresso.
Un secolo contraddittorio, al quale sarò sempre affezionato: ho vissuto gli
anni sessanta, quelli che passavano a cento all’ora, poi i settanta, cupi,
pesanti. I nostri genitori hanno conosciuto il fascismo, i nostri figli la
leggerezza degli ultimi decenni. Ognuno alimentato da un carburante culturale
diverso. Ma sono anni che resteranno». Per Eric Hobsbawm fu un «secolo breve»:
lo bloccò dentro due date, l’inizio della Grande Guerra e la caduta del muro.
Nel mezzo «un fallimento dei programmi vecchi e nuovi per gestire e migliorare
la condizione del genere umano». Profetico (oggi) dove allora sembrava
partigiano e marxista. Questo lo storico, che deve tracciare una riga, e
concludere. L’autore di canzoni si ferma prima della riga: spesso a De Gregori
viene chiesta una supplenza: «Parlaci di politica, cosa ne pensi, cosa
faresti», o peggio ancora: parliamo dei politici. «Mi annoiano. Non corro ad
accendere la televisione per ascoltarli a ogni ora, ogni trasmissione,
rimpallarsi responsabilità. Ma non è un disimpegno: non gonfio certo le truppe
dell’ antipolitica. E tutti sanno da che parte sto». Per questo i suoi occhi
sono fondamentali, la sua testimonianza da ascoltare, a volte più diffidente
che ammirata, altre volte più dolce che storica. Il punto di vista - «sereno» -
è quello del protagonista di una canzone di un giovane e sfortunato diamante
del secolo breve, «quel verso di Otis Redding in Sittin’ on the dock of the
bay: seduto sulla banchina di un molo a passare e sprecare il tempo». Un
personaggio già emerso in Calypsos, nella magnifica canzone In onda, e che
traghetta dentro questo disco ispirato e importante. La prima canzone è quella
che intitola tutto il lavoro, Sulla strada, affiorata dall’omonimo libro di
Jack Kerouac che De Gregori ha letto «a sessant’anni, e sono contento di averlo
fatto ora, ho potuto soffermarmi su altre cose, al di là dell’ impudenza
giovanile». È una canzone promettente e forse fasulla e sicuramente spavalda
come un viaggio senza arrivo, «non si vede granché / ma dev’ essere strada». La
misura e la velocità del disco sono indicate in Passo d’uomo, «altro passo non
conosco / altra parola non sono». Una cometa di inizio Novecento attraversa la
Belle époque, una camminata nel disordine d’inizio secolo, per strade che
brindano alla nostalgia, così distratte da non accorgersi di covare i tempi
dell’odio. Uno dei simboli di quegli anni era il Titanic (dipinto nei quadri,
fotografato, salutato dal molo), che De Gregori trent’anni fa elevò a simbolo
«del fallimento di un’idea ottusa di progresso, di una modernità che non può
essere sacra. La rete - oggi - può dare molto ma non può essere il totem della
civiltà. Ha toccato le nostre vite, ha stravolto il mio lavoro, ma se il
mercato discografico si è arreso di fronte a questa invasione di musica è solo
perché non ha saputo reinventarsi. Le novità obbligano a cambiare, a ripensare,
a trasformare, a maneggiare con il proprio talento tutte le possibilità. Faremo
più concerti e meno dischi: non è per forza negativo. In generale, c’è troppa
musica intorno, a tutte le ore, c’è una distrazione continua: non scegliamo più
cosa ascoltare, ma siamo scelti come ascoltatori di ciò che altri vogliono. Non
è una preoccupazione ma solo un dato di fatto». Belle époque, ancora: il
sergente che si perde nel freddo e nei bordelli è il poeta Dino Campana. I
genitori - afflitti dalle sue stranezze - pensarono d’inquadrarlo dentro
un’accademia militare. «Come sempre, Dino fuggì». La canzone è cruda come una
vita perduta, incompresa, dentro e fuori dai manicomi, «un dolore che
l’elettroshock ha portato fin dentro l’anima e le ossa di Campana»: è la
barbara elettricità che illumina la Belle époque, il trapasso di due secoli, ed
è «un omaggio a un poeta spiantato, al suo pellegrinaggio, alla sua tomba
bombardata, come il suo ricordo e la sua opera volutamente dimenticata,
combattuta dai coetanei (Giovanni Papini che lo tenne a distanza, e Ardengo
Soffici, che ne perse - o nascose - il manoscritto dei Canti Orfici)». Come e
più ancora di Pasolini, altro irregolare cantato da De Gregori ma più capace di
manifestarsi nelle sue doti, Campana è «una figura disallineata rispetto al suo
panorama, al suo sfondo». Cammina al ritmo rebetiko, l’intellettuale: ci sono
nel disco molti generi che si contaminano. «Ho assimilato tutto, da ragazzo mi
sono nutrito di musica anglosassone, Dylan e i Beatles, e anche caraibica... al
Folkstudio ho conosciuto Caterina Bueno (sue erano «le spalle da uccellino» di
Caterina) e Giovanna Marini, e mi sono innamorato della musica popolare
italiana, quelle strofe storiche, significative che paiono disadorne e poi
d’improvviso prendono fuoco, esplodono». Eccola, quella semplice potenza: è nel
ritornello di La guerra, vista accanto a sentimenti disperati del soldatino,
che lascia sola a casa una moglie «disarmata», che ripensa «al suo rancio
disgraziato», che non può mai vincerla, la guerra, perché la violenza vuole
qualcosa in cambio (la perdita della pietà), anche quando è legittima. La
guerra è una rapina. Il Novecento, ripete De Gregori, «ce l’ha portata nelle
stanze». La canzone è una marcia ad orologeria, un meccanismo emozionante e
perfetto. Poi nel disco arriva Omero. «Proprio lui, cieco, immenso. Pensavo a
questo raduno musicale, festoso, una specie di sagra e allora ho ricordato il
Cantagiro, anche questo è un impulso del mio vissuto: lo guardavo in
televisione, Morandi, Caterina Caselli...». E Omero: «Volevo che salisse sul
palco un cantante qualsiasi con quel curioso soprannome. Poi suonando la
canzone, ascoltandola...mi è parso bello che per miracolo apparisse veramente
Omero e cantasse l’Odissea, commuovendo il pubblico». Omero al Cantagiro è «la
rivendicazione del ruolo di una canzone, del turbamento che sa provocare», in
qualunque forma, colta, popolare, ricercata o semplice. È anche un prodigio di
creatività, un dono che ancora fortunatamente tormenta De Gregori, dopo tanta
musica. «Succede, nemmeno io so come e perché. Chissà: sento un ritmo, provo
tre note, rammento l’impressione di un libro. Poi accade». Verso la fine c’ è
una presa di distanza, guarda che non sono io. Dieci anni fa, con sempre e per
sempre De Gregori marcò la sua presenza - privata - e la sua rintracciabilità,
«dalla stessa parte / mi troverai». Adesso racconta la sua separazione
pubblica. «Non sono io / quello che ti spiega il mondo». Percepisce lo sgomento
dell’ ammiratore. E rassicura: «È l’altra faccia della stessa medaglia. Ho un
patto d’ amore con gli altri. Ed è onesto essere sinceri: mi riconoscono per
una canzone, non per quello che sono. Divento un loro sentimento, una loro
immagine, mi fermano mentre rincaso con le buste della spesa in mano e mi
dicono: ho chiamato mia figlia Alice, in suo onore. E posso solo rispondere:
credi di conoscermi / ma guarda che non sono io». Lui è sul molo, che batte il
tempo con il piede: questo è il punto di osservazione. È una bella
dichiarazione di privilegio. Alcune canzoni arrivano immediate, altre vogliono
un ripasso. Sono scritte con superbia stilistica, e straordinaria ricchezza,
esattamente limate, punteggiate di immagini affascinanti. Sul molo, appunto, ma
con le spalle al mare. De Gregori guarda piccoli o grandi corsi d’acqua
risalire l’enorme montagna, le espressioni preferiscono la complessità del
falso piano. Vorrebbe un compagno accanto, con cui passare il tempo e ricordare
il suo secolo infinito. «Vorrei ci fosse Fellini. L’artista autentico, puro,
che sapeva raccontare se stesso e allacciarsi al suo tempo e al suo mondo, e
renderlo, rappresentarlo con tenerezza e ferocia, raccontarlo con soavità e
senza sconti».
r.d.c.p.m.s.