martedì 11 giugno 2013

TRACOLLO PDL, CRISI DI NERVI E ALFANO ATTACCA IL PREMIER
Il Cav: «Se non ci metto la faccia si perde». I falchi contro Angelino che affonda contro Letta: «Smetta di scusarsi e dia una mission all’esecutivo»

Era prevista la sconfitta, non il cappotto. Undici ballottaggi su undici al centrosinistra. Sedici capoluoghi su sedici. Con Gianni Alemanno archiviato al primo mandato, un unicum per la capitale degli ultimi vent’anni: 28 punti in meno dello sfidante Ignazio Marino, soli 10mila voti in più tra il primo turno e il ballottaggio, un tesoretto di consensi dimezzato rispetto a cinque anni fa. Il Pdl con Roma (e tutti i suoi municipi) ha perso l’ultima delle grandi città e ha raggiunto i minimi storici del suo bilancio di governo locale. A Imperia l’ex feudo di Claudio Scajola si è liquefatto. L’asse del Nord con la Lega è polverizzato nella débacle simbolo dell’ottuagenario ex sindaco sceriffo Gentilini che correva per il terzo mandato, ma anche nella mancata affermazione in nove ballottaggi su nove, Brescia in cima. Altro che «riflessione forte» da avviare, come si è congedato mestamente il sindaco capitolino uscente. Al fianco, in conferenza stampa, aveva sua moglie Isabella Rauti, assunta dal vicepremier Alfano come consulente un minuto prima che il risultato elettorale fosse ufficializzato. «È finita che il prezzo di questo governo lo paghiamo noi, mica il Pd» si sfoga sconfortato un dirigente berlusconiano. Anche se l’astensionismo record penalizza certamente più il centrodestra del centrosinistra (che ha un elettorato più disciplinato e «dedito alla causa»), per il partito azzurro resta una catastrofe. Che non può non chiamare in causa la gestione di via dell’Umiltà. Silvio Berlusconi è furibondo amareggiato per il risultato complessivo. Ma non ha intenzione, per il momento, di mettere in discussione il governo: «È una sconfitta annunciata. Se non ci metto la faccia io finisce così. Ma il vero sconfitto è Grillo, perché lui la faccia ce l’ha messa. Ma valuteremo l’esecutivo alla prova delle misure economiche e dell’impegno in Europa» ha ripetuto in queste ore. Resiste la linea del «niente fallo di reazione». Anche perché, a Palazzo Grazioli, c’è la consapevolezza che staccare la fatidica spina potrebbe non equivalere a tornare alle urne: con lo smottamento in corso del M5 S, il Cavaliere è preoccupato che possa formarsi una «maggioranza alternativa» lasciandolo con il cerino in mano. Tutto questo non vuol dire che per l’ex premier questo voto non sia stato un campanello d’allarme. «Dobbiamo fare più attenzione al territorio - ha detto ai suoi - Non possiamo sbagliare candidati». Il punto più dolente, ovviamente, è Roma. Dove ha cercato di evitare fino all’ultimo - sondaggi alla mano - la ricandidatura di Alemanno, ed è convinto che i fatti gli abbiano dato ragione. Non a caso Maurizio Gasparri ha messo subito le mani avanti: «Giorgia Meloni non avrebbe preso più voti». Segno che nella destra romana, travolta e tutta da ricostruire, si è già aperto il processo agli sconfitti. Mentre la lista Fratelli d’Italia, con l’ex ministra, La Russa e Crosetto, ha triplicato i voti rispetto alle politiche di febbraio. Ma più in generale il Cavaliere è tornato a dubitare del futuro del Pdl: dell’acronimo che «non scalda i cuori» e della classe dirigente incapace di farcela da sola. È l’ennesimo tassello che rafforza il suo desiderio di mettere mano al partito per renderlo «liquido», agile, leggero. Poco costoso e ancor meno impegnativo. A questo punto il ritorno a Forza Italia sembra davvero imminente. C’è chi lo assegna addirittura alla fine di giugno, una volta incassata la gragnuola di sentenze. Ma, anche se balla parecchio il triplo ruolo di Alfano, non è scontato che Berlusconi voglia dargli un plateale ceffone che indebolirebbe di riflesso anche il governo di larghe intese. E sul Foglio il vicepremier esclude contraccolpi sul governo dopo il voto di Roma, e attacca Letta: «Invece di discolparsi dia al governo una missione in Italia e in Europa». L’opzione più probabile sul tavolo è quella di un affiancamento del segretario con l’ex ministro Raffaele Fitto. Il coordinatore pugliese è molto stimato da Berlusconi (era con lui sul palco della manifestazione di Bari) ed è rimasto a bocca asciutta di incarichi nonostante il buon risultato della sua regione alle politiche. Il partito, però, è in subbuglio. Stavolta la novità è che la richiesta di rimettere mano all’organizzazione non arriva solo dai falchi alla Daniela Santanchè, ma anche dalle colombe. Sandro Bondi, e non solo lui, mette al riparo il potere salvifico del capo: senza Berlusconi in campo, senza il traino forte del leader, il Pdl non esiste. «Si vince grazie al carisma e alle qualità politiche del presidente». Ma qualcuno nel partito comincia a pensare al dopo-Silvio, a intravvedere la fine di un ciclo. Bondi avvisa: «Senza un confronto interno non saremo mai in grado di produrre candidati dotati di forza propria». Anche Fabrizio Cicchitto, facendo sempre salvo il «carisma di Silvio», invoca un «salto di qualità» a livello locale: «Costruire un partito democratico, radicato sul territorio, che sceglie i dirigenti locali con i congressi e i candidati sindaci con le primarie». Santanchè attacca: «Ora si cambi l’organizzazione del partito».
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