VITA DA SENZATETTO: NOTTE IN STAZIONE ALLA RICERCA DI RIPARO E UN PO' DI CALORE ROBERTO, RABAF, DANIEL E GLI ALTRI: IL SOGNO DI UN LAVORO E DI UNA CASA PER RIUSCIRE FINALMENTE A TOGLIERSI DALLA STRADA
Una sigaretta accesa illumina la notte alla stazione Tiburtina. Roberto chiude gli occhi ogni volta che un raffica di vento gelido gli graffia il viso. Il pavimento è di pietra: «Ci vorrebbe un cartone». Ma lui non ha più nemmeno le coperte: «Me le hanno rubate un’ora fa, quando mi sono alzato per andare in bagno». Adesso Roberto trema. Borbotta qualcosa mentre guarda la pozzanghera ghiacciata poco oltre la tettoia che lo ripara dalla pioggia. Poi scuote la testa: «Questa non è vita».Non è vita per lui come per gli altri 25 senzatetto di Roma che sabato notte hanno trovato un riparo nelle stazioni della metropolitana di piazza Vittorio e Tiburtina, che rimangono aperte tutte le notti per permettere ai senza fissa dimora che si rifiutano di andare nei ricoveri del Comune di trovare comunque un riparo e un po’ di calore. Poco. Giusto un paio di gradi in più rispetto all’esterno. Perché la porta altro non é che una grossa inferriata in acciaio.A piazza Vittorio il vento penetra dalle sbarre che separano i senzatetto dalla strada. Sibila nei cunicoli della metro come la lama di un taglierino sulla carta. Tra i senzatetto sdraiati in terra c’è Rabaf, algerino, 52 anni. Arrivato in Italia nel 1987, Rabaf per anni ha vissuto vicino San Remo, dove lavorava come operaio nella coltivazione dei fiori. «Mi pagavano 35 euro al giorno, in nero – assicura con una smorfia - In tutti questi anni mai nessuno mi ha messo in regola». Rabaf, che parla bene italiano ed è tra i pochi clochard che è riuscito a tenersi lontano dall’alcol, fino a tre anni fa lavorava e aveva una casa. «Da San Remo mi sono spostato a Viareggio, dove per un paio di anni ho fatto il muratore, sempre in nero». Infine tre anni fa «sono arrivato a Roma, ma non sono più riuscito a trovare lavoro. E neppure una casa. Anzi, se qualcuno avesse un impiego da offrirmi può contattare la Comunità di S. Egidio di via Dandolo».Poco distante da Rabaf, sul pavimento della stazione di piazza Vittorio, sotto un’altra coperta c’è la storia spezzata di Daniel Corneliu Vasile, un ucraino di 35 anni, arrivato in Italia sei anni fa. Atterrato a Roma, Daniel ha subito raggiunto le campagne di Eboli, in provincia di Salerno, dove ha lavorato come stagionale nei campi di pomodori, carciofi, fagioli. In autunno raccoglieva le castagne. «Ho fatto anche l’aiuto carpentiere, per 20 euro al giorno. Sempre tutto in nero», racconta mentre si sistema sopra la testa uno sciarpone di lana a mo’ di cappello. Per questo anche Daniel non è in regola col permesso di soggiorno, «nonostante tornassi periodicamente a Roma per cercare qualcosa di meglio. Un altro lavoro, magari con il contratto». E invece, Daniel, a Roma tutto ciò che è riuscito a trovare è stato un posto letto sotto i portici di Porta Maggiore.Quanto sia facile finirci, in strada, lo sa bene anche Roberto, un romano di 32 anni, franato dal suo appartamento nei pressi di San Pietro al pavimento della stazione Tiburtina. Fino al 2001 Roberto faceva il magazziniere per una ditta di via Boccea, viveva in casa con i genitori. «Poi mia madre è morta, qualche mese dopo l’impresa ha chiuso e ho perso il lavoro». Il padre , che faceva il portiere in un palazzo vicino San Pietro «si è risposato con un'altra donna. Una straniera, che mi ha cacciato di casa». Da allora Roberto non ha più visto né sentito suo padre: «non ho altri parenti, sono solo al mondo».Roberto ha due occhietti scuri e vispi, e la speranza di riuscire a risollevarsi. Per ora «riesco a guadagnare 40 euro a settimana grazie a un amico d’infanzia, che il giovedì mi fa lavorare nella sua impresa di pulizie - afferma - Ma cerco un lavoro vero, qualsiasi cosa pur di abbandonare questo inferno (la stazione che lo ospita da quando è finito in strada). Perché questa non è vita», dice prima di spegnere la sigaretta e immergersi nell’ennesima notte gelida sul pavimento della stazione Tiburtina.