NEL CAPITALISMO DI RELAZIONE LIGRESTI NON PUÒ MAI CADERE
In questo Paese non cambia mai nulla. Siamo ancora qui a discutere di un piano finanziario per salvare il costruttore Salvatore Ligresti, uomo di potere per tutte le stagioni, traghettato dalla Prima alla Seconda Repubblica con il suo pesante carico di inchieste, condanne e sospetti, sopravvissuto al naufragio craxiano grazie alla fedeltà tributata in epoche diverse a Enrico Cuccia, a Silvio Berlusconi, a Cesare Geronzi. Ma è inutile sorprendersi. Ligresti è immortale, non può fallire. Può forse finire male, abbandonato, umiliato, un personaggio che da quarant’anni è in prima fila nelle battaglie per la conquista degli affari più ricchi, un campione del capitalismo di relazione che siede nei salotti di Mediobanca, del Corriere della Sera, delle Assicurazioni Generali, di Unicredit, della Pirelli? Il capitalismo italiano è talmente piccolo, oligarchico che i protagonisti devono far finta di niente, anche se non si sopportano, e mostrare almeno esteriormente un simulacro di unità, di condivisione delle disgrazie degli altri sodali anche se, in verità, non vorrebbero nemmeno mangiare un pizza insieme. L’ipocrisia trionfa, soprattutto sul mercato. Ieri la Borsa ha bocciato l’aumento di capitale di Premafin (la scatola finanziaria dei Ligresti) di 225,7 milioni di euro e quello della controllata Fondiaria Sai di 460 milioni. I titoli delle due società sono caduti, ma non succederà nulla di clamoroso. L’emergenza di Ligresti nasce dal fatto che il suo gruppo ha un debito di oltre 2 miliardi di euro, circa la metà verso il sistema Mediobanca. A fronte di questa situazione delicata il costruttore ha messo in campo una serie di alleanze e l’ aumento di capitale che, in poche parole, rappresentano la sintesi del conflitto di interessi, della commistione indebita tra parti correlate e della prevalenza degli interessi dell’azionista di controllo rispetto alle minoranze. Prima di deliberare il doppio aumento di capitale, che sarà garantito dal Credit Suisse guidato da quel Federico Imbert che in altri tempi finanziò la scalata dell’Olivetti a Telecom Italia, Ligresti ha stretto un accordo con i francesi di Groupama, un’importante compagnia di assicurazioni francese che possiede il 5% di Mediobanca a sua volta primo azionista delle Assicurazioni Generali. Groupama rileva circa il 17% di Premafin, la finanziaria posseduta da Salvatore Ligresti con i figli Jonella, Giulia e Paolo, ma questo sarebbe solo un investimento di portafoglio. È ridicolo. È chiaro che Premafin passa da un controllo singolo (la famiglia Ligresti) a uno congiunto (Ligresti col 34% più Groupama col 17%) e quindi è necessaria un’offerta pubblica di acquisto sull’intero capitale, ma questa opzione dovrà essere valutata dalla Consob del neo presidente Giuseppe Vegas. Groupama ha fatto sapere che in caso di opa l’alleanza salterebbe. Vedremo di che pasta è fatto Vegas. Ma non è finita qui. Contestualmente all’accordo con Groupama, Ligresti ha fatto entrare in Premafin anche il finanziere francese Bollorè, anche lui azionista di Mediobanca e premiato con la vicepresidenza alle Generali per l’appoggio garantito a Cesare Geronzi nella sua scalata al vertice della compagnia di Trieste. Questa ammucchiata finanziaria meriterebbe qualche chiarimento da parte dalla Consob, dell’Antitrust e dell’Isvap (l’Autorità delle assicurazioni). Ma è probabile che non succederà nulla. Ligresti ha superato mille ostacoli, gode ancora di fedeli alleati e di solidi protettori. Una volta stava con gli amici di Paternò, Michelangelo Virgillito e Raffaele Ursini al quale sfilò il primo pacco di azioni Sai. Era amico fraterno del senatore Antonino La Russa, padre di Ignazio il fascista ripulito nelle acque di Fiuggi oggi ministro della Difesa. Perchè Ligresti dovrebbe temere di perdere il trono? Anzi, è capace di sottili vendette. Al Corriere della Sera si fa rappresentare da Massimo Pini, l’uomo di Craxi nelle Partecipazioni Statali. Il passato offre insegnamenti e risorse. Il costruttore, che secondo la leggenda avrebbe iniziato con un sopralzo in via Savona, finì in carcere per l’inchiesta Mani Pulite: restò quattro mesi a San Vittore, senza spiegare perchè nella “Milano da bere” due licenze edilizie su tre finivano sempre alla sua Grassetto. Fu condannato a due anni e 4 mesi di reclusione e affidato ai servizi sociali. Prima del suo reinserimento nel mondo degli affari si convinse a spiegare il suo ruolo nell’inchiesta Eni-Sai e patteggiò per le tangenti sui piani edilizi di Pieve Emanuele, per i lavori al palazzo di Giustizia di Milano e per la vendita degli immobili Ipab. A settembre Ligresti ha perso la moglie, Antonietta Susini. Nel 1981 la signora fu vittima di un rapimento. Due degli autori, più tardi, furono trovati ammazzati e un terzo, affiliato al capo mafia Stefano Bontate, scomparve nel nulla.