lunedì 4 giugno 2012


LEGA NELLE MANI DI MARONI ORA SI PREOCCUPA FORMIGONI...

Con l’ elezione, ieri, del sindaco di Verona Flavio Tosi alla guida della Liga Veneta ( con il 57%, sabato era toccato a Matteo Salvini in Lombardia), si è completata la maronizzazione della Lega Nord. Che si concluderà ufficialmente il 30 giugno a Milano, con l’incoronazione del «Bobo» al congresso federale. «E ora lanciamo ancora una volta la nostra sfida alle stelle», gongola l’ex ministro dell’Interno sulla sua pagina Facebook, ormai divenuta la vetrina della Lega 2.0, quella dei «Bobo boys». E tuttavia, anche ai più avveduti della nuova guardia, non sfugge un paradosso, che è anche un rischio mortale: e cioè che l’opa di Maroni sia tardiva, arrivata a maturazione quando ormai le azioni sono in picchiata, e il processo di perdita di credibilità (e di voti) ormai è irreversibile. Era partita un anno fa, l’opa di Maroni. In quella torrida giornata di fine luglio a Montecitorio quando, complice l’assenza di Bossi, il ministro dell’Interno in carica si era seduto tra i banchi dei suoi deputati e aveva votato sì (mostrando ai fotografi il movimento delle dita) all’arresto del berlusconiano Alfonso Papa. «Maroni si prende la Lega», avevano titolato molti giornali, e le analisi convergevano: la fase di Bossi capo indiscusso, e il patto di ferro Arcore-Gemonio, sono al tramonto. Si parlava molto di un patto con Alfano per prendersi in tandem palazzo Chigi. Ma Bossi e Berlusconi, quella successione morbida, la vedevano come un golpe. E infatti a palazzo Chigi il cavaliere è rimasto fino a consunzione, e Bossi idem in via Bellerio. La resistenza del Cerchio magico bossiano è stata all’ultimo sangue, tra congressi farsa e minacce di espulsione a Tosi e allo stesso Maroni. C’è voluto lo tsunami delle inchieste sull’ex tesoriere Belsito, le lauree in Albania, i soldi in Tanzania e i diamanti di Rosi Mauro per arrivare a indire un congresso federale dopo dieci anni, e spianare definitivamente la strada alle ramazze di Bobo «il temporeggiatore», come l’hanno soprannominato anche alcuni suoi pretoriani. Per mesi diviso tra furori e timori, tra la consapevolezza che la casa stava bruciando, l’angoscia del parricidio e il terrore di un passo falso. E ora la domanda dalle cento pistole è questa: l’opa tardiva di Maroni riuscirà a ribaltare un trend decisamente in discesa, a riabilitare una Lega travolta alle ultime amministrative da una emorragia di voti anche nelle sue roccaforti? Al di là della propaganda di rito, nessuno si fa troppe illusioni. E nessuno tra i quarantenni che compongono la nuova squadra ha ricette pronte in tasca, al di là della damnatio memoriae per i famigli del Senatur. Si oscilla pericolosamente tra tentativi di imitare la Csu bavarese, oppure la Svp dell’Alto Adige, o magari i baschi che, spiega un leghista di peso, «al Parlamento nazionale si fanno eleggere ma poi non ci vanno». Archiviate con Bossi le mire secessioniste e le relative ampolle, ora l’obiettivo è tornare a svolgere un ruolo di sindacato del territorio, anti tasse (soprattutto l’Imu) e anti-immigrati, di tornare a soffiare sulle paure del ceto medio settentrionale, delle piccole e medie imprese alle prese con la crisi, sull’odio per l’Europa rigorista e per il governo tecnico di Monti che ne esprime il «volto italiano». Col sogno di arrivare al governo della Lombardia, suffragato dalla popolarità di Maroni ma reso decisamente sfocato dalla penuria di voti, dalla fine dell’alleanza col Pdl e dal tramonto del sistema Formigoni di cui la Lega è stata un pilastro. Un Carroccio che, secondo gli ultimi sondaggi, galleggia poco sopra il 4% (prima degli scandali era al 10%), ma resta ancora una forza chiave nel Nord, con 2 governatori, 11 presidenti di Provincia e oltre 300 sindaci. I sostenitori di «Bobo» guardano al bicchiere mezzo pieno. «Siamo riusciti a fare una “de-stalinizzazione in vita”, con dei congressi democratici, e senza spargimenti di sangue. Per noi la strada è molto in salita, ma non è un risultato da poco», spiega un tosiano. «A nostro favore gioca la questione settentrionale, i sindaci tartassati, le piccole e medie imprese, le infrastrutture irrealizzate, la pressione fiscale insopportabile», spiega il sindaco Fontana. «Se questi problemi non sono stati risolti è anche colpa nostra, ma non vedo nessun altro pronto a farsene carico». I nuovi vertici leghisti sperano di «recuperare i tanti nostri elettori schifati che sono rimasti a casa». O che hanno scelto Grillo. «I nuovi protagonisti sono di una tale vacuità che noi, nonostante i tanti errori, possiamo restare competitivi», assicura Fontana. Stando però alla larga dal governo di Roma. «Lì non si combina niente...». La partita è tutta qui: una questione settentrionale intatta, la presenza o meno nel 2013 di nuovi interpreti credibili di quelle istanze, la credibilità ferita a morte di un partito nato agitando il cappio e poi affondato tra i diamanti. Il tutto, al netto dei possibili colpi di coda del Senatur e del suo clan, di scissioni o di altre tegole giudiziarie. «Maroni? Lo attende una salita più dura del Mortirolo», sorride Daniele Marantelli, deputato Pd. «Ma se i temi del Nord non li afferra nessun altro, potrebbe anche cavarsela...».
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