LEGA NELLE MANI DI MARONI ORA SI PREOCCUPA FORMIGONI...
Con l’ elezione, ieri, del sindaco di Verona Flavio Tosi
alla guida della Liga Veneta ( con il 57%, sabato era toccato a Matteo Salvini
in Lombardia), si è completata la maronizzazione della Lega Nord. Che si
concluderà ufficialmente il 30 giugno a Milano, con l’incoronazione del «Bobo»
al congresso federale. «E ora lanciamo ancora una volta la nostra sfida alle
stelle», gongola l’ex ministro dell’Interno sulla sua pagina Facebook, ormai
divenuta la vetrina della Lega 2.0, quella dei «Bobo boys». E tuttavia, anche
ai più avveduti della nuova guardia, non sfugge un paradosso, che è anche un
rischio mortale: e cioè che l’opa di Maroni sia tardiva, arrivata a maturazione
quando ormai le azioni sono in picchiata, e il processo di perdita di
credibilità (e di voti) ormai è irreversibile. Era partita un anno fa, l’opa di
Maroni. In quella torrida giornata di fine luglio a Montecitorio quando,
complice l’assenza di Bossi, il ministro dell’Interno in carica si era seduto
tra i banchi dei suoi deputati e aveva votato sì (mostrando ai fotografi il
movimento delle dita) all’arresto del berlusconiano Alfonso Papa. «Maroni si
prende la Lega», avevano titolato molti giornali, e le analisi convergevano: la
fase di Bossi capo indiscusso, e il patto di ferro Arcore-Gemonio, sono al
tramonto. Si parlava molto di un patto con Alfano per prendersi in tandem
palazzo Chigi. Ma Bossi e Berlusconi, quella successione morbida, la vedevano
come un golpe. E infatti a palazzo Chigi il cavaliere è rimasto fino a
consunzione, e Bossi idem in via Bellerio. La resistenza del Cerchio magico
bossiano è stata all’ultimo sangue, tra congressi farsa e minacce di espulsione
a Tosi e allo stesso Maroni. C’è voluto lo tsunami delle inchieste sull’ex
tesoriere Belsito, le lauree in Albania, i soldi in Tanzania e i diamanti di
Rosi Mauro per arrivare a indire un congresso federale dopo dieci anni, e
spianare definitivamente la strada alle ramazze di Bobo «il temporeggiatore»,
come l’hanno soprannominato anche alcuni suoi pretoriani. Per mesi diviso tra
furori e timori, tra la consapevolezza che la casa stava bruciando, l’angoscia
del parricidio e il terrore di un passo falso. E ora la domanda dalle cento
pistole è questa: l’opa tardiva di Maroni riuscirà a ribaltare un trend
decisamente in discesa, a riabilitare una Lega travolta alle ultime
amministrative da una emorragia di voti anche nelle sue roccaforti? Al di là
della propaganda di rito, nessuno si fa troppe illusioni. E nessuno tra i
quarantenni che compongono la nuova squadra ha ricette pronte in tasca, al di
là della damnatio memoriae per i famigli del Senatur. Si oscilla
pericolosamente tra tentativi di imitare la Csu bavarese, oppure la Svp
dell’Alto Adige, o magari i baschi che, spiega un leghista di peso, «al
Parlamento nazionale si fanno eleggere ma poi non ci vanno». Archiviate con
Bossi le mire secessioniste e le relative ampolle, ora l’obiettivo è tornare a
svolgere un ruolo di sindacato del territorio, anti tasse (soprattutto l’Imu) e
anti-immigrati, di tornare a soffiare sulle paure del ceto medio
settentrionale, delle piccole e medie imprese alle prese con la crisi,
sull’odio per l’Europa rigorista e per il governo tecnico di Monti che ne
esprime il «volto italiano». Col sogno di arrivare al governo della Lombardia,
suffragato dalla popolarità di Maroni ma reso decisamente sfocato dalla penuria
di voti, dalla fine dell’alleanza col Pdl e dal tramonto del sistema Formigoni
di cui la Lega è stata un pilastro. Un Carroccio che, secondo gli ultimi
sondaggi, galleggia poco sopra il 4% (prima degli scandali era al 10%), ma
resta ancora una forza chiave nel Nord, con 2 governatori, 11 presidenti di
Provincia e oltre 300 sindaci. I sostenitori di «Bobo» guardano al bicchiere
mezzo pieno. «Siamo riusciti a fare una “de-stalinizzazione in vita”, con dei
congressi democratici, e senza spargimenti di sangue. Per noi la strada è molto
in salita, ma non è un risultato da poco», spiega un tosiano. «A nostro favore
gioca la questione settentrionale, i sindaci tartassati, le piccole e medie
imprese, le infrastrutture irrealizzate, la pressione fiscale insopportabile»,
spiega il sindaco Fontana. «Se questi problemi non sono stati risolti è anche
colpa nostra, ma non vedo nessun altro pronto a farsene carico». I nuovi
vertici leghisti sperano di «recuperare i tanti nostri elettori schifati che
sono rimasti a casa». O che hanno scelto Grillo. «I nuovi protagonisti sono di
una tale vacuità che noi, nonostante i tanti errori, possiamo restare
competitivi», assicura Fontana. Stando però alla larga dal governo di Roma. «Lì
non si combina niente...». La partita è tutta qui: una questione settentrionale
intatta, la presenza o meno nel 2013 di nuovi interpreti credibili di quelle
istanze, la credibilità ferita a morte di un partito nato agitando il cappio e
poi affondato tra i diamanti. Il tutto, al netto dei possibili colpi di coda
del Senatur e del suo clan, di scissioni o di altre tegole giudiziarie.
«Maroni? Lo attende una salita più dura del Mortirolo», sorride Daniele
Marantelli, deputato Pd. «Ma se i temi del Nord non li afferra nessun altro,
potrebbe anche cavarsela...».