di PAOLA MAURIZIO
SAN REMO- Cronache da un universo parallelo. Protagonisti il principe e il pupo. Sbucati, come fossero il cappellaio matto e il bianconiglio, ad una tavola di un’immensa sala vuota di un albergo chiamato, non a caso, Hotel Royal. Una roba da milleunanotte o da telenovela bavarese, fate voi. Un salone più in là ci sono gli stati maggiori di Tv Sorrisi & Canzoni, con Alfonso Signorini che si aggira come un lupo affamato. Qui no, c’è tutt’altra atmosfera. Pupo parla in continuazione, ti tocca, canta e ride a crepapelle, Emanuele Filiberto è più compassato - ovvio, per una persona del suo rango - anche quando quando quello che dice è assolutamente stupefacente: «Io sono amico di Mick Jagger, di Lenny Kravitz… solo qui mi rompono con questa storia del principe». Eccoci – poche ore prima che Antonella Clerici venisse calata da una specie di astronave sul palco dell’Ariston, prima che il Bonolis Paolo con il sodale Laurenti si prendesse tutta l’apertura del festival, soffiando così il fiato lungo di Mediaset pure su Sanremo 2010, e ore prima che la conduttrice rosso confetto leggesse il suo messaggio antidroga per Morgan il peccatore, rivelando qualche patetico verso della canzone vietata al festival - eccoci dunque al centro del dominio del kitsch, nel punto esatto in cui il kitsch incontra la storia, come dimostrato dalle bandiere tricolori e i fischi che hanno accolto il principe e il pupo sul palco. Voi, compagni, sobbalzate alla parola «Savoia», ma Emanuele Filiberto – che insieme a Pupo ed il tenore Luca Canonici è giunto al festival con la canzone Italia, amore mio - è il prodotto postmoderno e post-televisivo della post-storia d’Italia: un luogo in cui non ha più molto senso il passato che conosciamo noi, e dove l’ultimo dei Savoia è un ballerino, un cantante, uno «che quando appare in video aumenta di due o tre punti l’Audimen». «Auditel, si dice Auditel», gli suggerisce qualcuno, e Filiberto, alzando il regale sopracciglio, si gratta la testa facendo spuntare l’abnorme tatuaggio che orna il suo avambraccio.Ah, tragico Sanremo. Antonella sfida le leggi dell’«Audimen», cercando di rendere il tutto ancor più tedioso: la chiacchierata con Cassano da prima elementare, la lacrimevole storia di Susan Boyle, il brutto anatroccolo venuto da un talent show britannico, è degna, al massimo, del Treno dei desideri. In qualche modo si riesce a sopravvivere anche all’inutile canzone di Povia su Eluana. Allora quasi quasi meglio il Pupo e il principe, scaraventati sul palco dell’Ariston direttamente dalla trasmissione I raccomandati per cantare la loro canzone sull’Italia, «nata da una poesia di Emanuele». In pratica, dice in albergo, la questione è che a lui è «grato alla Repubblica e ai cittadini italiani che mi hanno permesso di tornare. Questa canzone è un modo per ringraziarli». Pupo freme: «L’avete sentita? No? E allora ve la canto». Si piazza al pianoforte del Royal e comincia a tuonare la voce. «Italia, amooooreee mioooo», la faccia paonazza, il crescendo incorporato, il pianoforte trema, lui appoggia le note nei versi più sentiti («Io stasera sono qui per dire al mondo e a Dio… Italia amore mioooo!»), e alla fine tutti i presenti esplodono un applauso liberatorio. Ok, parliamo di politica, anche se al festival è semivietato, roba di par condicio. «Il nostro è un paese che deve imparare a specchiarsi nel proprio passato», sentenzia Pupo. Ossia? «Io per esempio ho fatto cose tremende, ho dissipato tutto quello che avevo con il gioco, ero impazzito, ho anche malmenato la mia compagna, ma non ho paura di guardarmi allo specchio». Ehm… Dice Filiberto: «Ho sempre votato a destra. Ma rifletto come un uomo di sinistra». Pausa. «Non so che cazzo voglia dire, ma va bene così». Ah, però. Lo sa che Maria Gabriella di Savoia ha dichiarato che suo padre, ossia il Re, l’Umberto, non avrebbe mai permesso che il principe cantasse a Sanremo? Emanuele s’abbuia, e sibila marmoreo: «Questa gente si dovrebbe preoccupare di più dei propri problemi. Troppo facile far parlare i morti». Oibò. Per un secondo e mezzo, una coltre di cupezza s’abbatte sui presenti. Bisogna capirlo, Filiberto: vuole fare il beniamino televisivo, lui, vuole uno show tutto per sé, e a troppi la cosa non va giù. E ce l’ha pure con i cantanti che l’hanno attaccato perché non è un cantante è non ci dovrebbe stare, su quel palco. «Non sono molto rock». Lui sì che lo è. «Io ascolto i Cure, Depeche Mode, U2…». Sgraniamo gli occhi: certo, da Bono a Pupo il passo è lungo. Lui insiste: «Tom Waits, Rolling Stones, Red Hot Chili Peppers... Ho pure scritto una canzone per Marianne Faithfull». Davvero? «Sì, ho anche fatto il batterista in un gruppo. Si chiamavano gli Aristorock». Su queste note il Pupo e il principe si dissolvono. Pensando a Bonolo, a Clerici e a loro, ora ne siamo certi: Sanremo è un terribile, folle, universo parallelo.