Il Cav: «Se non ci metto la faccia si perde». I falchi
contro Angelino che affonda contro Letta: «Smetta di scusarsi e dia una mission
all’esecutivo»
Era prevista la sconfitta, non il cappotto. Undici
ballottaggi su undici al centrosinistra. Sedici capoluoghi su sedici. Con
Gianni Alemanno archiviato al primo mandato, un unicum per la capitale degli
ultimi vent’anni: 28 punti in meno dello sfidante Ignazio Marino, soli 10mila
voti in più tra il primo turno e il ballottaggio, un tesoretto di consensi
dimezzato rispetto a cinque anni fa. Il Pdl con Roma (e tutti i suoi municipi)
ha perso l’ultima delle grandi città e ha raggiunto i minimi storici del suo
bilancio di governo locale. A Imperia l’ex feudo di Claudio Scajola si è
liquefatto. L’asse del Nord con la Lega è polverizzato nella débacle simbolo
dell’ottuagenario ex sindaco sceriffo Gentilini che correva per il terzo
mandato, ma anche nella mancata affermazione in nove ballottaggi su nove,
Brescia in cima. Altro che «riflessione forte» da avviare, come si è congedato
mestamente il sindaco capitolino uscente. Al fianco, in conferenza stampa,
aveva sua moglie Isabella Rauti, assunta dal vicepremier Alfano come consulente
un minuto prima che il risultato elettorale fosse ufficializzato. «È finita che
il prezzo di questo governo lo paghiamo noi, mica il Pd» si sfoga sconfortato
un dirigente berlusconiano. Anche se l’astensionismo record penalizza
certamente più il centrodestra del centrosinistra (che ha un elettorato più
disciplinato e «dedito alla causa»), per il partito azzurro resta una
catastrofe. Che non può non chiamare in causa la gestione di via dell’Umiltà.
Silvio Berlusconi è furibondo amareggiato per il risultato complessivo. Ma non
ha intenzione, per il momento, di mettere in discussione il governo: «È una
sconfitta annunciata. Se non ci metto la faccia io finisce così. Ma il vero
sconfitto è Grillo, perché lui la faccia ce l’ha messa. Ma valuteremo
l’esecutivo alla prova delle misure economiche e dell’impegno in Europa» ha
ripetuto in queste ore. Resiste la linea del «niente fallo di reazione». Anche
perché, a Palazzo Grazioli, c’è la consapevolezza che staccare la fatidica
spina potrebbe non equivalere a tornare alle urne: con lo smottamento in corso
del M5 S, il Cavaliere è preoccupato che possa formarsi una «maggioranza
alternativa» lasciandolo con il cerino in mano. Tutto questo non vuol dire che
per l’ex premier questo voto non sia stato un campanello d’allarme. «Dobbiamo
fare più attenzione al territorio - ha detto ai suoi - Non possiamo sbagliare
candidati». Il punto più dolente, ovviamente, è Roma. Dove ha cercato di
evitare fino all’ultimo - sondaggi alla mano - la ricandidatura di Alemanno, ed
è convinto che i fatti gli abbiano dato ragione. Non a caso Maurizio Gasparri
ha messo subito le mani avanti: «Giorgia Meloni non avrebbe preso più voti».
Segno che nella destra romana, travolta e tutta da ricostruire, si è già aperto
il processo agli sconfitti. Mentre la lista Fratelli d’Italia, con l’ex
ministra, La Russa e Crosetto, ha triplicato i voti rispetto alle politiche di
febbraio. Ma più in generale il Cavaliere è tornato a dubitare del futuro del
Pdl: dell’acronimo che «non scalda i cuori» e della classe dirigente incapace
di farcela da sola. È l’ennesimo tassello che rafforza il suo desiderio di
mettere mano al partito per renderlo «liquido», agile, leggero. Poco costoso e
ancor meno impegnativo. A questo punto il ritorno a Forza Italia sembra davvero
imminente. C’è chi lo assegna addirittura alla fine di giugno, una volta
incassata la gragnuola di sentenze. Ma, anche se balla parecchio il triplo
ruolo di Alfano, non è scontato che Berlusconi voglia dargli un plateale
ceffone che indebolirebbe di riflesso anche il governo di larghe intese. E sul
Foglio il vicepremier esclude contraccolpi sul governo dopo il voto di Roma, e
attacca Letta: «Invece di discolparsi dia al governo una missione in Italia e
in Europa». L’opzione più probabile sul tavolo è quella di un affiancamento del
segretario con l’ex ministro Raffaele Fitto. Il coordinatore pugliese è molto
stimato da Berlusconi (era con lui sul palco della manifestazione di Bari) ed è
rimasto a bocca asciutta di incarichi nonostante il buon risultato della sua
regione alle politiche. Il partito, però, è in subbuglio. Stavolta la novità è
che la richiesta di rimettere mano all’organizzazione non arriva solo dai
falchi alla Daniela Santanchè, ma anche dalle colombe. Sandro Bondi, e non solo
lui, mette al riparo il potere salvifico del capo: senza Berlusconi in campo,
senza il traino forte del leader, il Pdl non esiste. «Si vince grazie al
carisma e alle qualità politiche del presidente». Ma qualcuno nel partito
comincia a pensare al dopo-Silvio, a intravvedere la fine di un ciclo. Bondi
avvisa: «Senza un confronto interno non saremo mai in grado di produrre
candidati dotati di forza propria». Anche Fabrizio Cicchitto, facendo sempre
salvo il «carisma di Silvio», invoca un «salto di qualità» a livello locale:
«Costruire un partito democratico, radicato sul territorio, che sceglie i
dirigenti locali con i congressi e i candidati sindaci con le primarie».
Santanchè attacca: «Ora si cambi l’organizzazione del partito».