ITALIA-GERMANIA: 44 ANNI DI SFIDE PERCHÉ I TEDESCHI CI
TEMONO
«I tedeschi temono Dio, e nient’altro al mondo». Otto von
Bismark venne prima del football, non poteva sapere che quel popolino appena
organizzato e intimorito dai grandi imperi appollaiati sul confine, e che gli
implorava protezione (contro l’Austria prima e contro la Francia più tardi)
sarebbe poi diventato il babau della gente da lui riunita. L’avesse saputo, il
primo cancelliere del Bundestag magari ci avrebbe invaso, invece che difeso.
Nel calcio, siamo la sventura della Germania. La diga della loro acqua, l’alba
dei loro sogni. Infatti ci temono, ci odiano, ci eviterebbero, anche.
«Preferivo l’Inghilterra», ha ammesso ieri il loro tecnico, Joachim Löw. Un
tipo preparato, coraggioso, che si tinge i capelli con troppa disinvoltura ma
che ha lavorato sulla nazionale tedesca così bene da farne - per armonia e
gioco - una replica di una squadra di club. È la migliore Germania mai vista.
Versatile, quand’era spesso monotona. Tecnica, invece che “fisica”. Un gruppo
che gioca insieme da molti anni, dalle selezioni giovanili: Khedira, Ozil,
Neuer, Boateng e Mueller vinsero gli Europei dell’Under 21 e Löw li “travasò”
nella nazionale maggiore. La squadra gira che sembra un capolavoro. E perché, la
Germania di Beckenbauer e Overath, Muller e Seeler che doveva asfissiarci ai
duemila metri dell’Azteca cos’era? E quella di Rummenigge e Breitner,
Littbarski e Schumacher, che ballò con noi nella notte Mundial non era
anch’essa fortissima? E i panzer che ci aspettavano in semifinale nel loro
Mondiale, in quella fumosa e cupa Dortmund, non erano imbattibili? Perché poi
arriva l’Italia. L’opposto. Vista da loro: la furbizia, l’opportunismo, il
contropiede, il mestiere. Anche la fantasia, questo lo concedono.
Nell’immaginario continentale, siamo semplicemente e perfettamente
complementari (ma ora, grazie a Löw, ci somigliano di più e per questo sono più
pericolosi). Siamo diventati un nome solo, scrivemmo sei anni fa, ai tempi di
Dortmund: Italiagermania, tutto attaccato, una cosa nostra, e anche un
patrimonio del calcio intero. Questo è il nome. Il cognome cambia:
quattro-a-tré, il padre. Tre-a-uno, il figlio. Due-a-zero, il nipotino. Questa
è la famiglia Addams che abita i loro incubi. La storia si ripete e i tedeschi
la subiscono sempre, anche in casa loro, come l’ultima volta, ai supplementari,
il luogo della nostra epica, quando i teutonici pencolano in avanti, sfiancati
dal tentativo di consumarci. E noi partiamo in contropiede. Gianni Brera
scriveva, dal Messico: «I tedeschi arrancano grevi. I tedeschi sono proprio
tonti: ecco perché li abbiamo quasi sempre battuti. Nel calcio vale anche
l’astuzia tattica non solo la truculenza, l’impegno, il fondo atletico e la
bravura tecnica». Forse intingeva nel luogo comune, ma di questo di nutrono
loro, verso di noi. «Pizzaioli», ci chiamavano a Dortmund, dove eravamo stati
per anni il sudore delle loro acciaierie. Quando la produzione si contrasse, e
c’era da fare posto anche ai disgraziati venuti dall’Est, i nostri calabresi,
siciliani, pugliesi ritrovarono questa virtù, e fecero pizze, e pastasciutte.
Va bene. E Grosso e Del Piero invece fecero i gol: due a zero, poi ci fu la
Francia a Berlino e il nostro quarto Mondiale, coi tedeschi che sfilarono sul
carro, festeggiando il terzo posto, ma dentro erano tristi. Ai supplementari si
concimano le macerie. In campo non c’è quasi più niente. Noi siamo bravi e
sappiamo palleggiare. La squadra alla lunga si disperde, piano piano, ma
succede. «Campeggia su diversi toni l’individuo grande o fasullo, coraggioso o
perfido, leale o carogna, lucido o intronato», ancora Brera. Quel pomeriggio
messicano del 1970 ci dominarono, da cima a fondo, c’incornarono con furore e
resistemmo, senza pudore, a mani nude. Bruciarono adrenalina per rincorrere il
nostro vantaggio, e l’ultima mezz’ora fu così piena di tutto, occasioni, errori
marchiani, prodezze (il gol di Riva), gesti eroici (Beckenbauer che gioca con
il braccio allacciato al collo, infortunato) e poi i gol, uno qui, uno là,
l’ultimo di Rivera, un tocco appena, la palla che scende in porta come un
veleno nella gola dei tedeschi. Sembrava il patrimonio emotivo e plebeo di una
generazione angosciata di illusioni, diventò un pezzo di storia, perché Italia
e Germania, quando s’incontrano, quando si sfiorano, quando si battono a fianco
o quando si fronteggiano è sempre una cosa importante. È nei libri. C’è anche
quella partita, che dette il tono a tutte le sfide successive. Nel 1982 Angela
Dorothea Kasner viveva nella campagna che degrada da Berlino verso il mar
Baltico, nata ad Amburgo ma cresciuta nella Germania socialista, la Ddr. Aveva
già conosciuto il primo marito, del quale tiene ancora il cognome:Merkel. La
Repubblica Federale era inquieta, ma teneva: quando Paolo Rossi si precipitò
fra le gambe dei tedeschi, all’appuntamento con il cross di Gentile,
l’inflazione era al 4% (in Italia era quattro volte tanto: 16%, arrivò anche al
20). Quando Tardelli raccolse tutta la voce di una Nazione e la urlò al mondo,
i tedeschi erano governati da Helmut Schmidt e nessuno può dimenticarne il
volto serio mentre cerca la mano di Pertini, quelle mani per aria, a
sventolare, con la pipa stretta, «non ci prendono più», e intanto aveva segnato
Altobelli, e non ci presero più. Ma ancora ci corrono dietro. Italiagermania è
un conto aperto che nessuno vuol chiudere, una partita di calcio cominciata 44
anni fa e non ancora finita. Giovedì ne vivremo un altro pezzo. Non finirà
mai. r.m.s.d.p.c.