DOVE SONO LE TABACCHINE VITA DA OPERAIE DALLO
PSICANALISTA
Discendiamo a ritroso il fiume di un’ epopea di famiglia
imperniata su tre generazioni di figure femminili. Celeste, sposata con il
mezzadro Filippo, scende dai declivi del Monte Nero per trasferirsi nella città
in pianura, dove non li attende la libertà agognata, ma la grande manifattura
di tabacchi. Una mostra sulle "tabacchine" a Roma. Tre delle figlie
di Celeste entrano appena quindicenni per imparare la difficile cernita del
Bright da sigarette e del Kentucky da sigari, attente che non si ponga su di
loro lo sguardo di un direttore «tutta coda come il baccalà», ultime nelle
gerarchie subalterne femminili. Il lavoro delle «tabacchine» è stagionale,
tutele sindacali non esistono. Ma sulla stirpe di Celeste grava qualcosa di più
pesante della fatica in fabbrica. La morte sembra aver prescelto quella
famiglia, per quanto le figlie siano belle e piene di vita, o forse è proprio
questo a stuzzicarla. Se la sua ala non gettasse un’ombra così larga e durevole,
il libro avrebbe potuto avere un altro titolo, evocativo di una radiosità e
dolcezza non perduta, una continuità elastica come la pasta delle tagliatelle,
nonostante la memoria di povertà e di lutti. Invece il romanzo di Stefania
Scateni si chiama semplicemente Dove sono (Nottetempo, euro 13,50).La
narratrice deve entrare in gioco, deve sdoppiarsi addirittura per tendere una
manovra a tenaglia contro l’antica avversaria di cui si sente erede. Da un lato
è Chiara, nipote di Celeste, strappata al grembo materno con un pionieristico
cesareo che compromette per sempre il legame con la madre. Dall’altro è una
voce che dice «io» e convoca quelle storie di un mondo contadino e operaio in
uno dei luoghi più lontani dal suo immaginario: lo studio di uno psicoanalista.
Ma attenzione, qui si apre la trappola che rende questo libro piuttosto unico.
Raccontare non rappresenta un procedimento terapeutico al termine del quale la
tela del destino rammendata possa essere messa da parte. L’analisi è destinata
a fallire perché vi incombono parole indicibili, parole di reciproca attrazione
tra medico e paziente che finiscono annotate in segreto. «Era una cartellina da
lavoro di una grande azienda pubblica piena zeppa di fogli. Stampate di
computer. Il contenuto però non era aziendale. Una volta rilessi quei fogli e
mi vergognai: un vero e proprio delirio. A volte deliriamo. Capita a tutti. Ero
anche sicura che quelle lettere, quel diario, documentavano un periodo di forte
regressione, e anche questo capita nella vita».La figlia ribelle che ha cercato
la fuga in avanti, si guarda indietro per la prima volta, quando ciò che ha
davvero urgenza di comunicare non le esce che tramite il linguaggio
irreprimibile dei gesti. Per quanto contenga tutto quel passato, per quanto sia
vera e profondamente sua, la narrazione non è che un pegno e un inganno per
prolungare quella malia amorosa, di cui finisce prigioniera più di prima.
Questo vale, naturalmente, per la cornice in cui in romanzo colloca la storia
di famiglia, non per Celeste, Tosca, Delfa, Assunta e Veronica che incontriamo
nelle sue pagine.Una Lingua Che Profuma.Lì ci troviamo, anzi, a contatto con
una lingua ricca di tonalità e profumi, delicata e flessuosa, e al contempo,
capace di far rivivere un tempo in cui il lavoro, oggi sempre più miraggio, era
accessibile al costo di piegarsi all’arbitrio padronale e di avere, tutti i
giorni festivi, le mani giallo-brune. Del femminismo frequentato come antidoto
al senso di ineluttabilità delle sorti femminili, l’autrice-narratrice ha assimilato
che il privato è pubblico ma anche il contrario: la condizione condivisa si
iscrive in ogni singolo corpo di chi la vive. Non è con le parole dell’analisi
né con quelle della scrittura che l’oppressione radicale della morte viene
allentata, ma attraverso i sensi e il corpo. «E cresceva in me la voglia, il
bisogno, di muovere un piede dopo l’altro, senza sapere se il passo sarebbe
stato corto, lungo, dritto, storto, in salita, in discesa, in piano o tutto
questo insieme. Amare, racconta una vecchia storia, è ballare con la morte,
motore del movimento dell’universo: ogni cosa svanisce e quel che rimane
rinasce in altri modi per confondersi ancora con la polvere dell’universo ed
essere di nuovo concepito». C’ è una parola che non bisogna aver paura di
pronunciare per questo romanzo: commovente. Ma quel che forse conta di più è
che riesce a commuovere senza essere consolatorio. La letteratura non è
medicamento per chi legge né strumento di salvezza per chi scrive, neanche se
per un breve tempo sottrae i morti all’oblio, nemmeno quando vibra dall’inizio
alla fine dell’urgenza di condensarsi sulla pagina. Come si definisce un libro
necessario? Forse si potrebbe dire che, leggendolo, non viene proprio da
chiedersi Cosa ci faccio qui? E nemmeno Dove sono? Quel punto interrogativo,
infatti, non lo troviamo sulla copertina. Dove sono di Stefania Scateni Pagine
192, 15 euro, Nottetempo editore.Una Mostra Sulla Fabbrica Tabacchi. Alla Casa
Delle Letterature A Roma. Nei 150 anni dell’Istituzione dei Monopoli di stato,
una mostra e il libro "Dove
sono" libro aprono uno squarcio, attraverso le vicende delle tabacchine,
sul lavoro e sulla condizione delle donne nella metà del secolo scorso. Le
pagine del romanzo di Stefania Scateni, che dirige le pagine culturali de
l'Unità dal 2001, vengono lette oggi mercoledì 7 alle 18.30 presso la casa
delle Letterature diRoma da quattro scrittrici italiane: Teresa Ciabatti, Gaia
Manzini, Sandra Petrignani, Giuseppina Torregrossa. Contemporaneamente si
inaugura la mostra «Delle donne e del lavoro», proposta dalla Fattoria Autonoma Tabacchi di Città di
Castello, che documenta il lavoro dagli anni 30 ai 70 delle operaie della
Manifattura tabacchi (fino al 6 aprile).
r.d.c.p.m.s.