venerdì 11 dicembre 2009

AMINATU PRIGIONIERA DI UN AEROPORTO, IN NOME DEI SAHARAWI
Non mangia da ventisei giorni, decisa a far valere il diritto di tornare a casa dai suoi due figli con l’unica arma che ha: se stessa. Con quel suo corpo magro, steso su un materassino nell’aeroporto di Lanzarote, Aminatu Haidar è riuscita a diventare un problema ingombrante. Per le autorità di Madrid soprattutto, che mai vorrebbero vedersela morire come un randagio in terra spagnola. Per lo stesso Marocco che l’ha messa alla porta, vista la sua ostinazione a dichiararsi alla frontiera come saharawi e non marocchina, come vorrebbe la logica dell’occupante. Rabat che ne ha fatto una questione d’onore, da lavare con pubbliche scuse e manifestazioni di pentimento, deve sorbirsi ora i rimbrotti internazionali e una pressione crescente. Hillary Clinton ha chiamato giovedì scorso il ministro degli esteri del Marocco, Taieb Fassi-Fihri. L’Onu e la Ue hanno chiesto a Rabat di rispettare i suoi «obblighi internazionali in materia di diritti umani», lasciando che Aminatu torni a casa. Quarantasei anni, alle spalle una vita tormentata come il suo paese mai nato, ingoiato dal Marocco nel far west che è stata la decolonizzazione spagnola. Anni in cella, torture, violenza per aver sostenuto il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi. Aminatu Haidar non ha perso in tutto questo tempo la sua forza gentile, la capacità di resistere. Dal carcere, con la complicità di un cellulare fattole arrivare clandestinamente, ha spedito le immagini delle terribili condizioni dei detenuti saharawi: i 2700 chilometri di muro costruiti per isolare il Sahara occidentale non sono riusciti a fermare la sua denuncia. Il suo impegno le è valso nel 2008 il premio Robert Kennedy per i diritti umani, lo stesso anno Aminatu è stata candidata al premio Nobel per la pace, nel 20005 il suo nome era stato proposto per il premio Sacharov. Oggi il limbo in cui il Marocco ha confinato Aminatu Haidar, costringendola a salire sul primo volo per le Canarie per punirla della sua ostinata difesa dei saharawi, è diventato una tribuna, il suo caso quello di tutto un popolo, come lei rimasto sospeso in una terra di nessuno, tra l’arbitrio del Marocco e una generica solidarietà mai conseguente (la Ue che dà lezioni di diritti umani, per dire, non si è mai posta il problema di firmare con il Marocco convenzioni per lo sfruttamento della pesca nelle acque rivendicate dai saharawi). Parlamentari Usa hanno fatto pressione sulla segretaria di Stato Clinton. Tre premi Nobel, José Saramago, Günter Grass e Dario Fo hanno firmato una petizione promossa da artisti e scrittori chiedendo che il re di Spagna interceda presso Mohamed VI. Il governo spagnolo tentenna: non vorrebbe coinvolgere Juan Carlos senza la ragionevole certezza che la sua mediazione potesse andare a buon fine. Bisogna lavorare di fino e in fretta. Aminatu quasi non riesce più a parlare. Maria Fernandez de la Vega, vicepremier del governo Zapatero, ha detto che farà di tutto per impedire che muoia in terra spagnola. Lunedì è già in agenda un incontro tra il ministro Moratinos e Hillary Clinton. Quasi trent’anni di lotta non violenta, invocando lo svolgimento di un referendum già deciso ma perennemente accantonato. Aminatu Haidar, con la sua bocca che non ingoia cibo, è il simbolo di questa lotta. «Se muore finiranno gli argomenti per continuare la via pacifica», ha detto Taleb Omar, primo ministro dell’autoproclamata Repubblica democratica araba dei Saharawi. «Noi difendiamo diritti nei quali l’Occidente dice di credere - ha detto Aminatu -. Eppure l’Occidente non difende noi saharawi. La nostra sola colpa è di chiedere la libertà. Ma questo in Marocco è un reato».
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