domenica 17 gennaio 2010

DOMINIQUE BLANC: «IL DOLORE? LO CONOSCO DALL'INFANZIA»
Toglie il respiro, Il dolore di Marguerite Duras. Nella messa in scena di Patrice Chéreau e Thierry Thieû Niang (oggi e domani al Teatro Palladium di Roma), la storia dell’attesa - e poi del ritorno nella primavera del ’45 - del primo marito della scrittrice francese Robert Antelme, intellettuale rinchiuso a Dachau e salvato in extremis dall’amico François Mitterrand, non lascia tregua. È un’analisi spietata e universale dell’essenza del dolore, che in definitiva è l’elemento che più accomuna gli esseri umani. Da un libro ci si può staccare, se il contenuto diventa insopportabile. Il monologo magistrale vissuto sulla scena da Dominique Blanc, quieta e implacabile, raziocinante e in chirurgico contatto con tutte le sfumature color sangue del dolore, è invece assolutamente ipnotico. Chéreau ha fatto del diario di Duras un montaggio teatralmente efficacissimo. Serve poco altro, oltre a un’attrice straordinaria. La scena è spoglia: un tavolo, una borsa che viene svuotata del contenuto all’inizio della rievocazione di fatti ed emozioni, una fila di sedie che si trasformano in quel luogo di strazio che alla fine della guerra fu la Gare d’Orsay, dove arrivava - o non arrivava - chi era sopravvissuto ai campi di sterminio. «Ma lo stesso è avvenuto alle donne che attendevano i loro uomini in Afghanistan, in Rwanda, in Iraq», dice la Blanc, premiata l’anno scorso per la sua interpretazione in L’autre di Patrick-Mario Bernard e Pierre Trividic con la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia. SOLA IN SCENA Con Il dolore, con il quale sta viaggiando per il mondo, Dominique Blanc chiude un cerchio. La prima chance della sua vita di attrice gliela diede proprio Chéreau. «Era un piccolo ruolo in Peer Gynt di Ibsen. Per pagarmi gli studi di recitazione a Parigi avevo fatto la baby sitter, la dog sitter, la donna delle pulizie, la badante in ospedale, la modella per un pittore giapponese. Il mio insegnante e regista, che era amico di Chéreau, lo invitò al saggio finale. Dopo l’estate, mi chiamò per il suo spettacolo. Se non avessi ricevuto quella telefonata, forse sarei tornata a Lione e avrei rinunciato». Poi ci sono stati grandi incontri: Claude Chabrol («Gentile, diretto, è stato lui nell’88 con Un affare di donne ad accogliermi nella famiglia del cinema»), Louis Malle («Un uomo affettuoso, che manca così tanto a tutta la famiglia di Milou a maggio»), Claude Sautet («Innamoratissimo di Romy Schneider, sempre in collera fuori, ma dentro il contrario»). «L’ultima volta che avevo lavorato con Chéereau - racconta Dominique Blanc - era nel 2003. Mi diresse in Fedra di Racine. Arriva un momento nella vita di un’attrice in cui bisogna fermarsi. E porsi delle domande profonde sul senso del proprio mestiere. Chéreau conosceva perfettamente il mio percorso. Ero sicura che mi avrebbe detto la verità su di me. Abbiamo pranzato insieme e mi ha parlato a lungo. Alla fine, mi ha proposto di fare una lettura insieme. La scelta è caduta su Il dolore . Quando l’ho letto, mi è venuta la pelle d’oca. Marguerite Duras dice: “Il dolore è una delle cose più importanti della mia vita”. Forse ho fatto lo spettacolo per quella frase. Anch’io ho un rapporto di grande prossimità con il dolore, lo conosco fin dall’infanzia». Il resto è stato un affidarsi senza rete alle mani del regista che l’aveva diretta anche al cinema, nel ’94, ne La regina Margot . «Venivo da una grande crisi. Avevo affrontato un grave problema di salute ed ero convinta che non avrei mai più avuto la forza di salire su un palcoscenico. Tornarci con Patrice è stato come rivivere. Ma dopo un po’ che leggevamo Il dolore insieme nei teatri, ho sentito il bisogno di farlo da sola. Una sera, gli ho detto: “Ti chiedo una cosa, ma non rispondermi subito. Accetteresti di mettere in scena Il dolore per me, in forma di monologo?”. È entrato nel suo camerino, poi è uscito e ha detto: “Ma… senza di me?”. “Sì, senza di te”, ho risposto. “Fai regie al cinema, a teatro, all’opera. Non hai mai tempo. Io, invece, con questo testo potrei fare il giro del mondo”. Qualche giorno dopo, mi ha inviato un’e-mail: “D’accordo, allora”. A quel punto, sono entrata nel panico. Perché per la prima volta sarei stata sola in scena». Dominique Blanc spiega che i racconti della seconda guerra mondiale hanno influenzato profondamente la sua generazione. «Mia madre aveva un fratello che morì in guerra a vent’anni, ucciso dai tedeschi. Sulla nostra famiglia, ha sempre pesato questa ferita mai metabolizzata. Mia madre mi ha cresciuta nell’idea che questo zio si era battuto per la libertà e la democrazia, ma ovviamente in tante famiglie francesi c’è stato chi ha parteggiato per Vichy, ci sono stati tanti collaborazionisti. Da giovane mi sono sempre chiesta: cosa avrei fatto io? Avrei avuto il coraggio di fare la Resistenza? Non saper rispondere con certezza a questa domanda mi ha tormentata a lungo. Duras dice che tutta l’umanità ha il dovere di condividere la colpa di quello che accadde nei campi di sterminio. Oggi, quello che mi colpisce è che i giovani vengono a vedere lo spettacolo e mi confessano di non sapere granché della seconda guerra mondiale, una tragedia così vicina, sia nel tempo che nello spazio. Ho capito con questo spettacolo che nel mio mestiere di attrice c’è un dovere di resistenza alla stupidità e alla volgarità sempre più imperanti, ma anche un impegno di trasmissione della Storia».
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